L‘ictus è una malattia grave e disabilitante, che in Italia colpisce ogni anno circa 50mila persone. È un evento improvviso, inatteso, traumatico e che ha un forte impatto non solo sulla persona colpita, ma anche sulla sua famiglia. E quando si torna a casa, dopo un periodo di riabilitazione, ci si trova a fronteggiare una nuova situazione, per la quale si è impreparati.
«In questa fase così delicata, i “sopravvissuti” e le loro famiglie sono spesso soli a sostenere un impegno che non è soltanto pratico ed emotivo, ma anche economico, – spiega la dottoressa Nicoletta Reale, presidente di A.L.I.Ce. Italia onlus, l’associazione per la lotta all’ictus cerebrale, www.aliceitalia.org.
“Up again alter stroke: una vita dopo I’ictus è possibile” è infatti il titolo scelto per la XIV Giornata mondiale dedicata all’ictus cerebrale, che si celebra il 29 ottobre.
Questa patologia è in costante crescita, considerando che oggi si vive più a lungo. Ma tra le cause dell’ictus non c’è solo l’avanzare dell’età, ci sono anche patologie o stili di vita non corretti: ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, alti valori dei trigliceridi, obesità, diabete, fumo, sedentarietà e alcune anomalie cardiache e vascolari oltre alla familiarità. La prevenzione diventa dunque fondamentale.
«E non bisogna trascurare i campanelli d’allarme, – avverte il professor Giovanni Meola, direttore dell’Unità operativa di Neurologia e Stroke Unit dell’Irccs Policlinico San Donato e ordinario di Neurologia all’Università di Milano. – In particolare quello rappresentato da un Tia, attacco ischemico transitorio, che produce sintomi simili a quelli dell’ictus (afasia, deficit del linguaggio, perdita della vista e dell’equilibrio, vertigini e mancanza di coordinazione, perdita di forza degli arti e della sensibilità e formicolii a viso, braccia e gambe, soprattutto in una sola parte del corpo), ma che non lascia traccia. È un’emergenza medica che non va assolutamente trascurata, perché c’è un’altissima probabilità che, a distanza di qualche mese, arrivi un vero e proprio ictus cerebrale».
L’ictus ischemico, noto anche come ictus trombotico o trombosi cerebrale, perché un trombo chiude un vaso sanguigno delle arterie cerebrali, è quello più diffuso. Otto casi su dieci, infatti, riguardano questa tipologia di ictus, mentre minori sono i casi di ictus emorragico, dovuto in particolare all’aumento della pressione arteriosa o al non corretto uso degli anticoagulanti.
«La trombolisi, – spiega il professor Meola, – con l’iniezione di un farmaco per via endovenosa, deve essere praticata entro tre ore dall’evento dell’ictus. Una terapia che in alcuni casi prevede, subito dopo, anche il ricorso alla trombectomia meccanica, che grazie a una sonda permette la rimozione del trombo. Questi interventi garantiscono un migliore recupero del paziente. Recupero che deve avvenire con il ricorso tempestivo alla riabilitazione multidisciplinare che contempli interventi, grazie ora anche a sistemi digitali e robotici, che riguardino, con l’ausilio di fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, il recupero di tutte le aree colpite, dalla mobilità al linguaggio, dalla scrittura alla disfagia».
Fonte: un articolo di Guido Sirtori, tratto da Intimità, 31/10/18
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